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I numi tutelari di quest'ampio excursus nei territori dell'autobiografia sono due: la fotografa parigina dell'età delle avanguardie Claude Cahun e Giorgio Manganelli, autore particolarmente importante nella formazione di Luca Scarlini, che è tra i curatori delle sue opere. A Claude Cahun appartengono i singolari autoritratti che scandiscono - unica illustrazione - l'itinerario dell'autore tra le infinite "metafore del sé" (per usare l'espressione di James Olney) in cui si è frantumata ai nostri giorni la pratica autobiografica. Da un capitolo all'altro, che Scarlini segua i passi di autobiografi illustri, come Canetti, o che si tuffi nel magma dei benemeriti archivi in cui vengono preservati dalla distruzione i materiali diaristici e documentari di mille esistenze oscure, è sempre la figura sfuggente di Cahun ad affacciarsi nelle fotografie che accompagnano il testo per turbare il lettore con le sue metamorfosi: di volta in volta seduttrice iperfemminile, clown, Buddha dorato, gigolò, alieno vagamente fantascientifico dalla testa a uovo.
"L'artista francese - commenta Scarlini - ha realizzato un lessico espressivo in cui il massimo della rappresentazione di sé coincide con l'estremo della cancellazione, e nel quale i segni, ambigui, incerti, spesso enigmatici, mettono in discussione ogni forma di appartenenza a un genere sessuale o estetico". Sono parole che indicano molto efficacemente una delle direzioni che ha imboccato il discorso autobiografico attuale: privilegiare le fratture dell'io rispetto alla sua coerenza, giocare con i linguaggi, sostituire alla vocazione pedagogico-moralistica del canone prenovecentesco (vocazione ben incarnata dalle memorie di Benjamin Franklin o da quelle del cardinale Newman) la perlustrazione di uno spazio dagli orizzonti provvisori e fluttuanti. Nello stesso senso va la lezione di Manganelli, di cui l'epilogo del volume cita un'illuminante intervista: "L'autobiografia è un genere plurale. Di volta in volta ne racconti una, ma non è mai una, è sempre un intrico di citazioni, di exempla, di aneddoti. Via via, alcuni vengono scartati mentre altri vengono recuperati. Noi siamo continuamente altre persone e continuamente percorriamo nuove strade".
All'insegna di questa esasperata pluralità, la ricerca di Scarlini si dirama, consapevolmente, in mille rivoli contraddittori. Scenario di una "presentazione" di sé, l'autobiografia può adottare le tecniche più diverse: vengono in primo piano, di volta in volta, il racconto d'infanzia (Dolores Prato), il resoconto di viaggio (Fosco Maraini, Ryszard Kapuszinski), la "controscrittura" poetica di Joë Bousquet, il ritratto generazionale (Arbasino, Edith Sitwell), la scrittura di sé come operazione storica, in continua interconnessione con quel che accade nel mondo (Gore Vidal), la proiezione del proprio io su una figura del passato scelta come oggetto di scrittura biografica (Bulgakov biografo di Molière, Brasillach biografo di André Chénier). A volte, l'io che si racconta si mette in gioco nel modo più radicale: è il caso di Jean Genet, i cui percorsi esistenziali e politici si bruciano in una scrittura trasgressiva e folgorante, ma anche di alcuni scrittori per cui centrale è l'interrogazione religiosa, l'incontro-scontro con il sacro (Clemente Rebora, C.S. Lewis, Ferdinando Tartaglia).
È però forse al di fuori del terreno della letteratura vera e propria che il paesaggio accidentato dell'autobiografia contemporanea offre a Scarlini gli itinerari più nuovi e più curiosi: dai manuali e dai siti (perlopiù americani) che incoraggiano alla pratica autobiografica l'uomo della strada, agli archivi dove si accumulano testimonianze di vita provenienti dai più diversi ceti sociali; dalla memorialistica nata in margine a immense tragedie storiche (prima fra tutte la shoah) al panorama degradato, eppure interessantissimo, dei vari reality shows giocati su una confusione sapientemente intrattenuta tra confessione e spettacolo, anonimato e divismo.
Come è giusto davanti a un testo che celebra il carattere multiforme e ambiguo dell'autobiografia contemporanea, il lettore di Equivoci e miraggi, alla fine, non sa bene se ha assistito al trionfo dell'autobiografia, o alla sua definitiva dissoluzione. Quel che è certo, è che la frattura aperta dal Je est un autre di Rimbaud non si è ricomposta, si è moltiplicata; e che le grandi imprese autobiografiche di Leiris e di Perec, scavando tra lutti indicibili, mitologie personali e linguaggi dimenticati, ai margini fra etnografia, sociologia e narrativa, ne hanno reso più sensibile e immediata la drammaticità.
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